Interpretare il Covid-19 con le parole di Lucrezio e Leopardi: come la poesia può alleviare il peso dello spirito

De Rerum Natura
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Sarebbe stupido ed inutile tediarvi dando notizie che ascoltate da qualsiasi emittente televisiva, magari sbuffando per la noia, siccome non si parla d’altro. Allora abbiamo pensato, nel nostro piccolo, di interpretare l’attuale situazione al di là delle prosaiche notizie del TG.

Un vaccino per questa malattia non esiste, ma ce n’è un altro per il montaliano male di vivere che ci affligge, cura in pectore, come avrebbe detto uno dei protagonisti di questa ricerca: Tito Lucrezio Caro.

FONTA-BOSCO
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Il parallelo più ovvio fra il vate latino e la realtà che stiamo vivendo è quello dell’apocalittica peste di Atene, di cui citeremo questo passo:

Fu in questo modo che un giorno spirò
un fiato caldo di morte nel suolo di Cècrope
e cadde funesto su campi e su strade
e fece deserte le case degli uomini
 
(vv 138-141 VI° libro del De Rerum Natura)

Ora, non è certamente nostra intenzione far credere che le due situazioni siano paragonabili. Sembreremmo esagerati, se non stupidi.

Eppure un punto di contatto c’é: le strade sono deserte sia nell’Atene descritta dal letterato, sia nella nostra realtà. Ma Lucrezio non è solo il poeta della natura nemica: quante sono le immagini, nel poema, in cui il mondo è presentato in tutt’altra veste? Tante, tantissime. La più grande delle tragedie, la peste, si staglia nel panorama di una natura che non può fare a meno della vita. Nel caso, farebbe a meno di se stessa. L’esistenza è l’unica prospettiva possibile nell’immaginario epicureo, stando al concetto, rivelatosi poi giusto, del continuo rinnovamento dovuto al meccanico aggregarsi di atomi nel vuoto, per inane.

Anche la prosaica lettura scientifica serve a trarre l’ottimismo necessario a scacciare la desolazione: la vita è l’unica strada che non dobbiamo cercare, perchè essa è nell’aria, e non c’è epidemia che tenga, non c’è virus che possa cavare dal nostro animo il dovuto stupore che ci porta ad affermare che il mondo non finirà mai. Forse finiremo noi, vero, ma ci potremo dire morti se dal nostro corpo spunterà l’erba che genererà stirpi e stirpi di altre forme di vita? E se da ciò che fummo nascerà un fiore? E quante api ne trarranno miele? Potremmo essere più vivi di così? Non ci crediamo, ma la morte ci sfiora nella sola apparenza. Nasciamo e morendo permettiamo di nascere. Noi stessi siamo partecipi della gigantesca ed incessante corda della vita, della sua abnorme catena di montaggio; non esistono disoccupati, almeno biologicamente parlando: siamo tutti lavoratori del vivere.

Il pessimismo lucreziano, forse, si incarna in ciò: chiediamo sempre di più dal mondo quando questi ci ha addirittura dato l’immortalità. Che dovremmo volere di più?

Abbiamo citato un fiore ed abbiamo parlato di vita e morte nell’universo. Nulla meglio della nascita di un fiore rappresenta la prospettiva dell’esistenza, che abbiamo stabilito essere l’unica. E allora è inevitabile non pensare alla Ginestra leopardiana ed al bagliore di luce che si diffonde nel cielo con l’alba.

C’è un’immagine che, più di tutte, nel poemetto illustra la nostra caducità:

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi…

La caduta di una mela distrugge un formicaio, un movimento della crosta terrestre abbatte città, un’eruzione rade al suolo Pompei.

Sarebbe difficile immaginare una natura più malvagia, sadica nel distruggere quanto l’uomo ha eretto con il sudore della fronte.

E quando ormai la terra è in fiore e coperta di fronde può capitare che i frutti del duro lavoro siano bruciati dagli smodati raggi dell’etereo sole, distrutti dalle improvvise piogge, dai gelidi inverni, o vessati dal violento turbine scatenato dagli zefiri.

(vv 213-217 V° libro De rerum natura)

Ma la distruzione dell’uomo è anche matrice di vita: un’eroica ginestra si erge a testimonianza del vivere che si rinnova, della natura che apre un nuovo ciclo.

All’uomo spetta seguire questo precetto per essere felice: l’unica vita giusta è quella  secondo natura.

La desolazione che ci prende in periodi come questi è inevitabile: siamo chiamati a combattere una guerra stando seduti.

Lo facciamo, però, nel nome di una prospettiva più grande, che è quella della felicità per non aver contratto il morbo e non aver messo in pericolo chi ci circonda.

La spinoziana letizia che alimenta il nostro conato di autoconservazione è la legge naturale che più si confà alla società in questo particolare periodo storico.

Ci diciamo spesso che questi sono castighi divini, che l’uomo debba pagare per i propri delitti, che siamo creature deboli, parti infinitesimali dell’universo e lamentele varie.

Dovremmo pensare che, invece, l’atteggiamento più giusto sia quello della fiducia nelle capacità che, per l’appunto, ci rendono uomini e non bruti, perché se la natura è  grande e può sterminarci con un essere microscopico come un virus, noi, che di questa sostanza naturale siamo parte, recitando Spinoza o Bruno, abbiamo le possibilità di non farci impunemente falciare.

Siamo giunti alla conclusione.

Come premesso nel titolo, non siamo così presuntuosi da millantare il possesso dell’elisir della felicità, ma speriamo di aver, almeno, instillato nel lettore una pur minima goccia di ottimismo, l’arma migliore non per uscire in strada, bensì per vagare nell’universo.