La poesia permette di creare immagini e metafore attraverso gli elementi più disparati, come una semplice goccia d’acqua. Il merito va ad una grande poetessa ottocentesca, sconosciuta ai più, Maria Alinda Bonacci Brunamonti.
L’allieva di Leopardi
Recanati non è solo famosa per il grande Giacomo Leopardi ma anche per Maria Alinda Bonacci, figlia di Gratiliano Bonacci, insegnante di retorica. Fu la madre ad indurla a scrivere versi, inizialmente a tema religioso, raccolti nella silloge Canti con dedica a Pio IX. Divenuta anticlericale, in seguito ai violenti episodi che coinvolsero anche la Chiesa, scrisse i Canti Nazionali del 1860. Votò, unica donna, al plebiscito per l’annessione delle Marche e dell’Umbria al Piemonte. Scrisse molto ma un ictus la colpì nel 1898. Ecco il suo ritratto letterario in un articolo di Silvia Guidi sull’Osservatorio Romano:
Le antologie letterarie, di solito, citano Maria Alinda Bonacci Brunamonti per le sue frequentazioni eccellenti: in effetti mantenne rapporti con importanti letterati del tempo come Giacomo Zanella, Giosuè Carducci, Antonio Fogazzaro. Da Carducci ebbe giudizi non sempre lusinghieri; talvolta, qualche commento sarcastico al limite della maleducazione. A Perugia nel giugno 1877, Carducci la conobbe ma non riuscì ad apprezzarla né sul piano estetico («la Brunachilde — scrive in una lettera — la vidi ieri sera; ed è peggio che nel ritratto») né sul piano poetico, definendo i suoi versi «profondamente antipatici». Ma c’è anche un biglietto, a nome «Giosuè Carducci. Senatore del Regno» dove scrive queste parole: «Bologna, 21 marzo 1897.
L’approvazione della Sign. Bonacci Brunamonti mi è premio. G.C.», in risposta a un messaggio affettuoso inviatogli dalla poetessa qualche giorno prima, il 19 marzo. Maria Alinda non fa mistero della sua fede cristiana, e poco si cura che i suoi colleghi letterati si prendano gioco di lei per questo. Non lesina critiche neanche al suo amatissimo Giacomo Leopardi, fedele al proposito di non tradire mai «i divini ideali per gradire al secolo». Con la poesia del grande recanatese intreccia un dialogo serrato, appassionato, talvolta polemico, che non avrà mai termine. «Io ho avuto due maestri in vita mia egualmente potenti sul mio spirito: Dante e Leopardi — scrive in Pensieri cristiani — Ambedue m’hanno insegnato lo stesso vero: ma l’uno affermando, l’altro negando. Da ambedue ho attinto la stessa sapienza. Il primo m’eleva coll’arte sua alle altissime visioni della giustizia oltremondana; il secondo, mostrandomi un velario nero terribile, fra cielo e terra, m’ha invogliato a sollevarne i lembi per cercar l’azzurro al di là». È proprio Leopardi a rivelare il fallimento della illuministica cultura della ragione; una cultura così simile a quella contro la quale Maria Alinda scriverà pagine intense. Di Leopardi, che pur ama molto, si farà talvolta “maestra”, suggerendo risposte ai quesiti di lui, in un dialogo non solo letterario.
Ne sono prova il carteggio con Teresa Teja, seconda moglie di Carlo Leopardi, e il sonetto da lei scritto Vox de coelo dedicato dalla famiglia Corsetti ai conti Giacomo junior e Sofia Leopardi quando il loro amato primogenito Monaldo viene ordinato sacerdote: «Molte cose mi dice, e a sovrumana / Vita m’esalta: dubbio, ira, sgomento / Dileguan vinti da una pace arcana, / E confidente ed ilare divento. / La vita delle cose aride, amare, / Che gravan di lor noia i sensi stanchi, / Sotto quell’onda magica scompare». Maria Alinda ha parole molto dure anche contro quei “bigotti” incapaci di empatia: «Le persone pie, acquistano dalla pietà loro una specie di più irosa e resistente antipatia — scrive il 30 giugno 1875 — Il sentimento religioso che le induce con facilità a perdonare e dimenticare un’offesa personale, non è quasi mai tanto profondo da indurle a perdonare un’opinione diversa».
Una schiera in cui non esita ad annoverare anche se stessa: «Quanto è facile a me parlar di virtù, di sacrifizio, d’amore, correggere le sentenze disperatamente amare di Leopardi, stando qui in una raccolta e dolce cameretta, co’ piedi sopra le frange morbide d’una stuoia, studiando a tavolino i libri e la vita! Che virtù è la mia? Virtù indica battaglia e vittoria. A che lotte è stata esposta la mia vita? Come potrei essere invidiosa, superba, iraconda, se la vita in quest’ora mi sorride? (…) Tutti i felici sanno esser buoni in un certo modo.
La goccia d’acqua
La poesia scelta riguarda la storia di una goccia d’acqua. Ecco il testo:
Era limpida goccia, dondolante
sul curvo ramïel d’un biancospino:
innamorato del sol di levante
lo rinfrangeva in sè come un rubino.
E cader non volea. Ma un uccellino
crollò volando l’alberel tremante:
cadde la goccia; lo smeraldo fino
fu loto sotto il piè del viandante.
Oh, chi gli rende i suoi perduti onori?
come potrà tornar, casta e tranquilla
gemma dei cieli, a tremolar sui fiori?
Ben lo potrà il divino sol che brilla
e a sé ritrae con rinnovati ardori
l’anima umana e la caduta stilla.
Tutto il componimento verte sull’immagine della goccia, che era limpida e dondolante sul curvo ramoscello del biancospino e che rifrangeva i colori dell’alba. Stava bene lì ma il destino ha scelto diversamente: è bastato il poggiarsi di un passerotto sul ramo, anch’egli figlio di una coincidenza avversa e per questo innocente, a farla crollare al suolo ed oltre la caduta è stata anche calpestata come loto dal piede del viandante. Entra in scena la poetessa, che si pone delle domande su di essa, che ha perso i perduti onori e che forse non tornerà casta e tranquilla gemma dei ciel a tremolare sui fiori.
Ecco allora che proprio quel sole, il divino, simbolo cristiano, che si preoccupa di aiutare gli umili e i poveri, che, attraverso l’evaporazione della stilla, si prende l’anima della goccia, ascesa in cielo. Una poesia che è quasi una parabola cristiana, dai significati metaforici molto evidenti, dove la goccia rappresenta una persona normale che viene gettata nel fango dal destino o da altri e che si ritrova a vivere miseramente e proprio per questo ad ascendere nel Regno dei Cieli.