La Samba du Scojonamento di Dino Simone diventa un tormentone ed un inno per resistere alla quarantena

Dino Simone
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Siamo tutti bloccati in casa ormai da più di quaranta giorni e, anche se ci sono molte spinte per sollecitare una ripartenza delle attività economiche, ci aspettano ancora molti altri giorni di divieti e restrizioni per sperare di fermare definitivamente la diffusione del virus Covid19. Per quanto infatti siano in calo i contagi, ancora siamo lontani dal dire addio al regime di lock down.

Il percorso che abbiamo tracciato fin qui noi spettatori più fortunati, che seppur con tanti sacrifici, siamo potuti rimanere al sicuro nelle nostre case, è servito, in modo diverso ma simile anche per dedicarci a quelle tante attività – prima un po’ trascurate – familiari, casalinghe, ludiche, fai da te ed anche musicali.

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Infatti sono passati in rete moltissimi video di musicisti amatoriali, ma anche di professionisti che hanno espresso cantando e suonando questa silenziosa e coraggiosa resistenza ad uno stato di emergenza che ha preoccupato ed angoscia tutt’ora.

La musica è sempre un rimedio catartico per trasformare emozioni negative stemperandole in atmosfere più leggere e leggiadre, spesso attraverso motivi sonori ironici e sarcastici.

Non molti giorni fa il popolo del web si è lasciato trasportare dal ritmo contagioso di un brano di un musicista, Dino Simone, che proprio in quarantena ha trovato ispirazione per scrivere la sua particolarissima  Samba du scujonamentu. Il brano è piaciuto così tanto che, oltre ad aver raggiunto decine di migliaia di condivisioni e visualizzazioni, il programma Striscia la notizia ha “rubato” ai social il video per proporlo nel suo spazio serale.

Il testo piacevolmente orecchiabile, la rima baciata, il ritmo coinvolgente sono le carte vincenti di Dino Simone che suona da sempre e che con quell’aria rilassata e sorniona mi ha incuriosito e spinto a ricercare più notizie su di lui, intuendo che ci fosse qualcosa di interessante da sapere. La tecnologia per fortuna permette non solo di tenersi in contatto ma di conoscere meglio degli artisti un po’ sconosciuti ma molto capaci. Così gli ho chiesto se aveva voglia e tempo di rispondere ad alcune mie domande.

– Il tuo Samba du scujonamentu, oltre ad essere un simpatico, originale e piacevole brano, che come un tornado è entrato nelle nostre clausure domestiche obbligatorie portandoci una ventata di ritmo ed allegria, mi sembra sia una sintesi sapiente di sonorità che rimandano alla Bossa Nova, genere da cui nasce appunto il Samba e ricorda il compositore Antonio Carlos Jobim, il poeta Vinicius de Moraes ed il chitarrista Joào Gilberto. Quali studi e quanto studio c’è nel tuo percorso musicale? Insomma si sente che sei un professionista ed il tuo genere non è affatto o solo ironico, o sbaglio?

– Mi viene da ridere e me ne scuso, ovviamente. In realtà non sono un professionista, quando rispondo a questa domanda tutti rimangono sorpresi. Suono con passione ma non ho mai studiato musica. Scrivo canzoni, anche se poche, per pura esigenza, visto che per radio passano musica che non mi piace. Scrivo quello che manca a me, in pratica. Ho cominciato a suonare la chitarra a sette anni, tramite mio padre e successivamente armonica, fisarmonica, pianoforte, basso, cetra… ma tutto ad orecchio. Involontariamente, ho avuto anch’io dei maestri, mi riferisco a tutti gli artisti che ho ascoltato; da De Gregori a De Andrè, da Conte a Capossela, Pino Daniele, Buscaglione e tanti artisti sud americani e tantissima musica popolare (sono salentino). Riguardo al genere, parlando soprattutto dei testi, a parte la famosa Samba, è tendenzialmente ironico, a volte anche sarcastico e, anche se per niente ermetico, nasconde spesso dei riferimenti anche socio-politici.

-Ho ascoltato alcuni brani eseguiti da te alla fisarmonica, che tra l’altro è uno strumento difficilissimo da suonare. E’ il tuo strumento preferito? Mi sembra riesca ad esprimere la tua più profonda vena poetica nella musica strumentale.  E’ così o è una mia impressione?

Sembra quasi che tu mi conosca da una vita! C’hai preso in pieno. La fisarmonica, in ordine cronologico, è stato il terzo strumento. Ho iniziato a 10 anni. Però è stato amore a prima vista. Prima che mi venisse regalata già ne ero innamorato, perché un amico di mio padre, Bruno, la suonava spesso durante le serate “pre-smartphone”, quando si stava in silenzio ad ascoltare. Devo dire che quasi tutti hanno la sensazione che hai avuto tu quando la suono. Questo perché mi manda letteralmente in estasi e mi fa assumere espressioni che non controllo ma, che insieme al suono, trasmettono emozioni forti a quanto pare.

-Guardando qua e là in rete cercavo notizie di te più specifiche per capire meglio quali sono le tue esperienze. Puoi dirmi qualcosa su questo?

In un periodo, all’inizio della mia esperienza da fisarmonicista, verso la seconda metà degli anni ’80, non ce la passavamo bene in famiglia e quindi, per necessità ho fatto il “suonatore ambulante”. Successivamente, un po’ perché mi imbarazzava e un po’ perché sognavo di suonare nei pianobar, con qualche sacrificio, sono riuscito ad avere l’attrezzatura professionale per esibirmi nei locali, sempre accompagnato da mio padre. In realtà io accompagnavo lui, perché prima dei 16 anni non ho mai cantato. Dopo i 16 anni è cominciata la mia avventura come cantante di piano bar, ho cominciato ad iscrivermi ai festival paesani, spesso vincendo e contemporaneamente ho iniziato a scrivere canzoni che non facevo ascoltare a nessuno. Come cantautore, ufficialmente, sono emerso (se così si può dire) nel 2018 vincendo le selezioni e partecipando al Proscenium Festival di Assisi, manifestazione canora di altissimo livello per cantautori, che quest’anno, virus permettendo, sarà alla terza edizione.

– Di dove sei e dove lavori? Il tuo territorio, le tue origini sono fonte di ispirazione oppure miri ad altri luoghi per la tua musica?

Sono di Sannicola, paesino poco distante dal mare Gallipolino, Salento. Lavoro e abito a Grosseto da 22 anni. Entrambi i luoghi mi hanno formato per ciò che riguarda la musica popolare, benché al sud sia molto diversa. Riesco a coltivare con piacere tutte e due le culture ma “chi nasce tondo non può morir quadrato” e  di conseguenza preferisco quella d’origine.        A volte i posti dove vivo e quelli dove ho vissuto, sono stati fonte d’ispirazione ma in linea di massima, però, ad ispirarmi sono le persone, oggi più che mai. Alcuni brani che ho scritto, abbastanza recenti (Lui è amico di Bukowski, L’ultimo bicchiere, E poi ritorna e Rocco che ancora non ho messo in web), sono dei “ritratti” di persone reali, di esperienze. E come per i pittori, per poter fare un ritratto, devi osservare il soggetto. Sono persone che ho frequentato e frequento, amici soprattutto. Si va a cena insieme, si chiacchera del più e del meno, si gioca a carte a volte e, naturalmente, si beve. Tutto senza avere attaccato alle mani un “disuassuasore di emozioni”. Se ti distrai, il ritratto viene male.

-Cosa pensi della musica come espressione culturale? E cosa riscontri tu personalmente lavorativamente parlando? Cioè, pensavo anche all’inflazione di opportunità create dalla rete e da tanti programmi televisivi ( i cosiddetti talent)… Come si fa a rimanere sé stessi senza farsi piegare dalle mode del momento oppure dal businnes discografico? Parlami se puoi dei tuoi punti di vista a riguardo.

Il fatto che io abbia 46 anni e non sia conosciuto come cantautore, dovrebbe già bastarti come risposta. Come ho già detto, la musica che gira per radio non mi piace e quindi  scrivo delle canzoni da ascoltare o aspetto con ansia un singolo/album di qualche artista che mi piace e lo compro. Purtroppo credo che il mondo della discografia sia solo ed esclusivamente business. L’italia è piena di grandi cantautori ma a parte quelli che qualche volta si vedono in giro (come Mannarino, Silvestri, Ayane, Zilly), gli altri sono relegati nell’ombra più scura. Ricordo che da piccolo ascoltavo i grandi cantautori spesso senza nemmeno conoscere la loro faccia perché sulle copertine dei dischi molte volte non c’era, c’era solo il nome e la loro musica incisa. Ora se non c’è un video che accompagni la musica, il prodotto non è smerciabile. Senza dilungarmi troppo in polemiche sterili, sarò diplomatico: cosa ne penso della musica come espressione culturale? La musica ha cambiato espressione. Prendo a malincuore come esempio il Trap. Non è possibile che una canzone sia più parlata che cantata. Non credo che sia dilagato tanto perché piaccia. Credo che sia uno dei tanti fenomeni di largo consumo destinato ad un pubblico facilmente influenzabile e prodotto dagli esperti del mercato discografico, abili influenzatori.

Per rimanere se stessi, quindi artisti puri, senza influenze esterne che manipolino la mente se non addirittura le opere, bisogna essere pronti all’idea di rimanere nell’ombra ma essendone fieri. Quello in cui ho sempre creduto è: meglio suonare per due persone a cui piace quello che fai, che suonare per mille a cui piace quello che ti fanno fare.

–  Quali sono i tuoi progetti futuri e/o quali erano prima di quest’emergenza virus?

Sto lavorando a diversi nuovi brani, chiaramente incastrando passione, lavoro e altro. Lo stavo già facendo prima del virus ed ora, grazie alla fortuna che ha avuto la Samba, sono sicuramente più stimolato, anche se aspetterò l’ispirazione, non vorrei iniziare a scrivere per fare “ciccia”. Sono stato contattato da qualcuno, inevitabilmente. La gran parte, pseudo discografici che volevano pubblicare sugli store il pezzo. Ma a quello c’ho pensato io, alla modica cifra di 10€. Li ringrazio comunque per l’interesse manifestato (questo è sarcasmo, ad esempio).

Ringrazio ancora Dino per avermi concesso quest’intervista, dandomi così l’opportunità di confermare le mie intuizioni.  Dietro ad un brano improvvisato in casa ero certa ci fosse una sapiente e appassionata conoscenza musicale di un professionista che preferisce coltivare i suoi desideri piuttosto che piegarsi alle regole.